REVERIE SU "L'INFINITO"

  

Il canto di Leopardi si apre con: "Sempre caro mi fu...".

Non possiamo non soffermarci su quell'incipit: "Sempre caro...".

Il rimando al senso che quel "caro" ha nella nostra vita è essenziale, a ciò che abbiamo sperimentato esserci "caro" e, al tempo stesso, prezioso.

Aprendoci alle sensazioni e ai ricordi, alle esperienze, potremmo mettere insieme momenti e situazioni diverse.

Potrebbe tornare il ricordo di un viso sorridente, di una voce gentile, il calore di una carezza, di una mano che ci sfiora i capelli o la guancia.

Sono gesti, momenti, presenze, che nutrono la nostra vita, l'aiutano a mettere radici nell'esistenza, comunicandoci la calda sensazione di essere accolti, protetti, benvoluti.

"Caro" è dunque una parola legata a risonanze profonde e universalmente connotate, che tutti possiamo assaporare.

È un inizio di poesia che sa ben disporci all'ascolto, che sembra porgerci la mano per un tratto di strada insieme, rianimando la nostra esperienza.

E quel "caro" ci conduce verso "..quest'ermo colle…".

Se vogliamo proseguire nell'esperienza, nel percorso che il poeta ci propone, dobbiamo accettare di muoverci alla volta dell' "ermo colle", un colle solitario, e di farlo assieme a lui.

Giunti sul colle solitario sembra quasi non esserci altro che il colle, un colle deserto.

Ma come di fronte al quadro di un pittore, ecco che, con rapida pennellata, si aggiunge "… e questa siepe…".

Il colle solitario si anima di una presenza importante, essenziale, visto che la siepe ("… che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude") diviene tramite di una diversa "visione".

Leopardi non è lì per ammirare il paesaggio, che l'occhio interiore sembra incapace di scrutare, non le montagne, la campagna: il suo sguardo ha necessità di altri spazi e la siepe diviene quasi il suo confidente, l'occasione per quel vedere "altro" e oltre.

"Ma sedendo e mirando...".

Ci si siede accanto alla siepe. È una sosta che si immagina dolce, intensa: quel "caro" ne è stata la premessa.

Ed ecco che attraverso quel "…e mirando…" ci si apre un diverso scenario: "... interminati spazi di là da quello...".

Ecco l'immaginazione prendere il volo, dilatarsi, superare ogni confine, pronta a materializzare un mondo segreto.

Lo sguardo diviene attento, eppure sognante, sembra in attesa.

"... e sovrumani silenzi e profondissima quiete...".

Il battito del cuore rallenta, le palpebre possono anche abbassarsi, il respiro è calmo.

Quel "caro" sembra ora renderci partecipi della sua intima motivazione e magia.

"... io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura".

Quegli spazi, quei silenzi, quella quiete, provengono tutti dall'anima del poeta, che ce ne rende partecipi.

Tutto diviene così intenso, così coinvolgente, che quasi incute timore, seppure prevalga l'incanto.

"E come il vento odo stormir tra queste piante...".

L’immaginazione poetica, il sereno sostare nella sua "finzione", portatrice di quiete e di abbandono, trovano, nel rumore del vento tra le foglie degli alberi, la via per un ulteriore percorso interiore.

"... io quello infinito silenzio a questa voce vò comparando...".

Quella percezione di pace e di silenzio si affianca, si accompagna al rumore del vento.

"... e mi sovvien l'eterno e le morte stagioni, e la presente e viva e il suon di lei".

Ora lo sguardo del poeta si apre ad una percezione diversa che abbraccia il nostro essere qui, l'avventura della vita, il senso di quella trascorsa, intuitivamente colta, e di quella presente.

"Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare".

Questo mi appare il passaggio più intenso e oscuro, che ha bisogno di tutta la nostra capacità intuitiva e immaginativa.

 

Con un occhio al dolce approdo del canto, credo che una giusta attenzione vada riservata a quel "... s'annega...", che Leopardi lega al suo pensiero, al suo pensare.

Sorprende quel "... s'annega...", e sembra quasi inappropriato, fuori luogo.

L'annegare non ha proprio niente di leggero o dolce, visto che è sinonimo di morte, per giunta tragica, sofferta.

Qualcosa che toglie il bene più prezioso: la vita.

Ma qui l'annegarsi del pensiero ha il sapore di una liberazione, è palesemente benvenuto (e lo rivela il verso seguente, che si avvale di un'altra immagine "inappropriata" :  "... e il naufragar...").

Leopardi non usa "... si smarrisce...", che sarebbe stato più "adeguato", meno traumatizzante, meno "impegnativo". Vuole forse comunicare la necessità di un taglio netto, definitivo, e forse anche segnalare l'inadeguatezza delle stesse parole, pur nella necessità di scrivere, e facendone - in maniera magistrale - uno strumento di contraddizione.

 

Tra il "volo" iniziale, la percezione dell'esistere, e il farsi del tempo presente, si realizza, nell'animo del poeta, una perfetta fusione, e forse il "veicolo" è proprio quell'annegarsi del pensiero, quell'essere oltre il pensiero, quello che valuta, distingue, separa.

In quel pensiero, che rinuncia al suo primato, per mutarsi in pura presenza e osservazione, si offre un mondo nuovo, un modo nuovo, che non si lascia catturare dagli affanni.

Un modo che non attende la soluzione di tutti i problemi per potersi esprimere. Un modo che forse si apre allo stupore dell'essere e trae da quello alimento per una salutare sosta in una dolcezza senza confini.

 

Mi sono finora trattenuto dall'usare la parola "zen" per questa poesia. Ma non sarebbe inopportuna, visto lo spiazzamento che Leopardi opera nella nostra mente.

Non credo che "L'Infinito" sia un banale esercizio di "bello scrivere", bensì racchiuda la necessità di testimoniare un vissuto in atto, e forse, al tempo stesso, è un "ammaestramento", come pure la rivelazione di una sua dolce scoperta.

 

Sorpreso lo sono anch'io per qualcosa che non avevo sin qui notato.

Si può non sentirsi ancora di più vicini a questo uomo-poeta solitario ?

Si può non guardarlo con occhi nuovi ?

Si può non sentirsi grati per la generosità della sua testimonianza ?

 

Il breve cammino, sulle orme del poeta, ci lascia in una condizione senza tempo, colma di benefico stupore.

Così sostiamo ancora un po', forse smarriti e sopraffatti, sul magico colle...

Sarebbe esagerato percepirlo come il luogo di una "illuminazione", di uno "speciale", materializzatosì nella nostra carne ?

 

Tutto è sembrato giocarsi nell'innocenza di un sguardo limpido...

 

Luciano Galassi

(18 novembre 2013)